lunedì 29 gennaio 2018

SCARPA ATOM S EVO OD



Quando la prima neve comincia a posarsi sulle montagne, torna immediatamente in auge il tema della scarpa invernale: ha senso spendere un po’ dei nostri sudatissimi risparmi per una scarpa da neve, che con ogni probabilità useremo per due, forse tre mesi l’anno?


La mia risposta è sempre stata un sì deciso, sia perché amo correre in montagna quando c’è la neve sia perché, da buon appassionato di materiali tecnici, ho sempre trovato una buona mossa utilizzare una scarpa specificamente progettata per resistere alla neve, al freddo e all’umidità in manierà più decisa delle scarpe estive. Per lo stesso motivo per cui non correrei mai un trail in pieno agosto con degli scarponcini in Gore-Tex, non ho mai trovato confortevole starmene ore a zonzo sui sentieri in neve fresca con una scarpa leggera. Questo per dire che utilizzo scarpe da winter running da molti anni ormai, posso quasi dire di averle viste nascere, ma quando ho provato per la prima volta la Atom S di SCARPA la sorpresa è stata notevole: mai visto niente del genere, prima. Una sensazione di corsa leggera, veloce e scattante che ricordava quella dei modelli da 260 grammi della stagione estiva, con quella ghetta integrata a forma di calzare che avvolge la caviglia proteggendola dalla neve lasciando però molta più libertà di respirare rispetto ai modelli con ghetta esterna aggiuntiva. La Atom S EVO OD alza l’asticella della qualità ancora un po’ più in alto, con una struttura rinnovata e molto più solida, con una protezione migliorata e un’allacciatura nettamente più precisa e confortevole della sua sorella maggiore. Vediamo insieme i dettagli di questa scarpa.



Suola
Uno delle grandi novità della Atom S EVO OD. SCARPA abbandona infatti la suola della vecchia Atom in favore di quella della Spin, e noi non possiamo che rallegrarcene! Una suola praticamente perfetta: Vibram Megagrip, stessa struttura della Spin, con una tassellatura aggressiva in grado di mordere qualunque sentiero che però non tradisce le aspettative sui tratti più delicati. I tasselli multidirezionali hanno una dimensione ben equilibrata, abbastanza piccoli da scaricare bene il fango e la neve ma grandi a sufficienza non dare la sensazione di correre sugli spilli quando il terreno di fa compatto. Della suola della Spin abbiamo già parlato in diverse occasioni e ci piace ribadire quanto ci sia piaciuto portarla in lungo e in largo sui sentieri per tutta la stagione 2017, per cui è stata una bella sorpresa ritrovarla anche sui modelli invernali della casa di Asolo. Ottima la protezione dal terreno, ottenuta con un rockplate a tre quarti di lunghezza che agisce in sinergia con la suola (ed è ben visibile: vi stupirete della sua resistenza all’usura!) e l’intersuola.



Intersuola
Non parliamo certo di un modello iper ammortizzato, ma la Atom S EVO OD è una scarpa con cui si corre dappertutto senza troppi problemi. Certo, sul terreno duro e compatto risulta più secca di quanto non accada sul sentiero innevato, che fornisce una buona dose di ammortizzazione naturale ai nostri appoggi, ma mi è capitato di utilizzarla in diverse occasioni durante le grandi piovute di quest’inverno qui a Torino e mi ci sono trovato benissimo. È sicuramente una scarpa più sbilanciata sulla performance che sul comfort puro, ed è nell’ammortizzazione che questa propensione “race” emerge maggiormente. Infatti, non riesco a pensare ad una scarpa più adatta ad una corsa sulla neve, ad un “trail blanc” come li chiamiamo qui al nord-ovest: veloce, estremamente reattiva, confortevole quanto basta ma scattante quando serve soprattutto sulla neve battuta.



Tomaia
Uno degli elementi di maggiore interesse di questa scarpa è sicuramente la costruzione della tomaia, assolutamente innovativa per una scarpa da trail. Mutuando un’idea applicata sugli scarponi da alpinismo di fascia alta, SCARPA ha infatti spostato la ghetta integrata dall’esterno all’interno della scarpa, alzando di fatto il collarino impermeabile in OutDry fino a coprire parte del polpaccio. Cosa cambia? Beh, tutto! La scarpa, non avendo un overlay aggiuntivo che copre il piede, risulta nettamente più traspirante e piacevole da vestire di un modello tradizionale con ghetta esterna. È notevolmente più pratica da maneggiare durante una gara o un allenamento lungo, perché i lacci sono sempre a portata di mano pur avendo la loro “lace pocket” per riporli durante la corsa. Indossandola, la sensazione ricorda quella di uno stivaletto morbido, che si adatta immediatamente al piede avvolgendolo e assecondandolo in ogni movimento. La talloniera, infatti, è precisa senza mai risultare eccessiva. A queste caratteristiche, aggiungiamo anche dei begli inserti di protezione dagli urti sulle dita e in generale una struttura solida e contenitiva di tutta la tomaia nel suo insieme, senza rinunciare alla doti di impermeabilità e ottimizzazione del calore della membrana OutDry. Insomma, gli ingredienti per una scarpa di successo c’erano tutti e in SCARPA hanno saputo combinarli al meglio.
  
Tirando le somme
Ho amato moltissimo la prima Atom S, ci ho corso una magnifica gara in condizioni polari sulle montagne di Montgenevre ad inizio 2017 e mi ero convinto di aver trovato la scarpa definitiva per le corse sulla neve, soprattutto per quelle in cui spingere un po’ più del solito sull’acceleratore. Con questa seconda versione, sulla quale la sigla “EVO” calza davvero a pennello, SCARPA si è davvero superata smussando quel paio di angoli che nella Atom S avevo considerato difetti di gioventù. Innanzitutto la suola, ora davvero perfetta sia per la neve sia per un utilizzo più tradizionale, e poi l’allacciatura, non troppo precisa sul primo modello e decisamente più stabile e contenitiva in questa nuova versione. Questa nuova Atom S EVO da subito una sensazione di maggior solidità e protezione rispetto al modello della stagione passata, pur rimanendo leggerissima (appena 360 grammi, davvero un peso piuma per un modello così protettivo) e con un drop molto agile di soli 4 millimetri. L’unico terreno su cui non si trova proprio a suo agio è quello di bassa quota, il “door to trail” con tanto asfalto, contesto davvero molto lontano dai sentieri innevati di montagna per i quali è stata concepita. Un difetto di questa Atom S EVO OD? Il prezzo di 279€ non è proprio accessibilissimo, nonostante si tratti di una scarpa estremamente valida sotto ogni punto di vista. 





venerdì 19 gennaio 2018

VARIABILITÀ DELLE FREQUENZA CARDIACA (HEART RATE VARIABILITY, HRV)


Negli articoli precedenti abbiamo esplorato la relazione tra l’eccesso di sollecitazioni, derivanti dall’allenamento o da altri stimoli, e la tendenza a Sindrome da Sovrallenamento, infortuni da sovraccarico e intolleranza all’allenamento acquisita.
In tutti i casi abbiamo visto che una parte importante della soluzione consiste nella prevenzione.
È di fatto importante rimanere in una sorta di zona ideale in cui l’attività è sufficiente a generare gli stimoli necessari, ma non porta il fisico alla stanchezza cronica, in cui recupero e riposo sono adeguati a consentire miglioramenti in forza, velocità e resistenza, ma non portano a de-allenamento.
Storia
Al giorno d’oggi la maggior parte degli atleti sa che l’osservazione della frequenza cardiaca a riposo è un modo di monitorare la prestazione, il recupero e la salute. Pensate che la prima descrizione scritta della frequenza cardiaca, misurata al polso, risale alle opere di Erofilo, medico e scienziato dell’antica Grecia (335 AC – 280 AC), le cui osservazioni furono sviluppate dal medico greco-romano Galeno di Pergamo (131 – 200), che scrisse almeno diciotto libri sulle pulsazioni, incluso otto trattati su come formulare diagnosi e prognosi di varie malattie. I suoi insegnamenti dominarono la pratica medica per quasi sedici secoli, attraverso Medioevo e Rinascimento, fino all’età moderna; fu il primo a riportare gli effetti dell’esercizio fisico sulla frequenza cardiaca. Ad esempio, in una delle sue opere dedicata alle pulsazioni afferma “L’esercizio – finché praticato con moderazione – rende la pulsazione vigorosa, grande, veloce e frequente; tanto esercizio fisico, in eccesso rispetto alle capacità dell’individuo, rende al contrario la pulsazione piccola, debole, rapida ed estremamente frequente.” Quest’ultima frase contiene una verità, cui molti atleti moderni farebbero bene a prestare attenzione.



Verso la fine del XVII secolo, cronometri più precisi permisero di misurare meglio la frequenza cardiaca. Si dice che sia stato il medico inglese John Floyer (1649-1734) ad inventare un orologio portatile con la lancetta dei secondi ed un pulsante che permetteva di tabulare pulsazioni e respirazione in una varietà di condizioni; egli pubblicò le sue rilevazioni in due volumi, diventando un sostenitore del fatto che “si può conoscere il battito naturale e le variazioni di ritmo causate dalle malattie”. Con il miglioramento dei cronometri, si arrivò presto a descrivere le fluttuazioni delle pulsazioni arteriose e nel 1733 il reverendo John Hales (1677-1761) riportò che la durata degli intervalli fra un battito e l’altro variava durante un ciclo respiratorio.
In tempi più moderni e, in particolare, verso la fine del ventesimo secolo, ulteriori sviluppi nella misura e dispositivi a disposizione hanno portato a osservazioni ancora più accurate sulla frequenza cardiaca e sulle sue variazioni; questo a portato a definire la variabilità della frequenza cardiaca (HRV = Heart Rate Variability) come uno strumento diagnostico per la valutazione delle cardiopatie e la cura degli infartuati. Negli ultimi anni, inoltre, dispositivi di misura che prima erano grandi, complessi e di difficile lettura, sono diventati molto più economici ed accessibili al grande pubblico anche grazie alle tecnologie Bluetooth e ad alcune “app” di facile utilizzo per smartphone e tablet.
Vediamo cos’è esattamente questa variabilità della frequenza (HRV) e come può rivelarsi un importante strumento di monitoraggio per gli atleti.
Sistema nervoso simpatico e parasimpatico: un equilibrio dinamico
Da un punto di vista fisiologico, sappiamo che il battito cardiaco accelera durante l’esercizio, perché il cuore deve pompare più forte per consegnare ossigeno ai muscoli, e che rallenta quando terminiamo l’attività. Queste modulazioni sono controllate dal sistema nervoso autonomo (SNA), all’interno del quale distinguiamo due sottosistemi che influenzano direttamente la frequenza: il sistema nervoso simpatico (SNS) ed il sistema nervoso parasimpatico (SNP). L’SNS è conosciuto come “combatti o scappa” (fight or flight, in inglese), accelera i battiti ed è attivato quando dobbiamo difenderci, mentalmente o fisicamente, oppure effettuare attività fisica consistente; al contrario, l’SNP è invece il meccanismo “riposa e ripara”, attivato quando ci rilassiamo, dormiamo o in generale recuperiamo, essendo attivato anche da meditazione, respirazione profonda ed esercizi di yoga leggeri.
E’ importante notare che nessuno dei due sistemi è più importante dell’altro, ma lo stato fisiologico ideale prevede che essi collaborino armonicamente: l’SNS ci rende pronti a importanti incontri di lavoro, ci fa concentrare prima di una sessione di allenamento intensa o contribuisce alla prestazione durante una gara, mentrel’SNP ci assicura che riposiamo correttamente, che il recupero mentale e muscolare sia il più completo possibile e che siamo il più possibile a nostro agio. Le cose si complicano quando uno dei due meccanismi diventa predominante sull’altro per un periodo prolungato: l’esempio più classico, un po’ esagerato, è quello dell’atleta di endurance che eccede con gli allenamenti ad alta intensità senza riposare sufficientemente. In questo caso, l’SNS continuerebbe in uno stato di prevalenza dovuto all’eccessivo stimolo allenante che, se protratto per troppo tempo, porterebbe il fisico ad uno stato di affaticamento in cui, paradossalmente il sistema parasimatico SNP prenderebbe il sopravvento, con conseguente letargia e impossibilità ad allenarsi.
Considerato tutto quanto, è chiaro che sarebbe un valido alleato uno strumento che ci mostrasse se il nostro corpo è in uno stato di equilibrio. Nel passato gli atleti hanno misurato la propria frequenza cardiaca appena svegli per sapere quanto erano pronti a ricevere gli stimoli allenanti e, sicuramente, un battito a riposo eccessivamente rapido può essere un campanello di allarme. Tuttavia, uno studio effettuato da università francesi e svizzere (Relation between heart rate variability and training load in middle-distance runners. Med. & Sci. in Sports and Exercise: January 2000) mostra come dopo un periodo di tre settimane di intenso allenamento, la frequenza cardiaca di un gruppo di runner è aumentata in media solo del 9% (3,74 battiti al minuto), mente la variablità della frequenza (HRV) ha mostrato una variazione media del 40%; le conclusioni dello studio furono che “l’HRV sembra essere uno strumento migliore della frequenza cardiaca a riposo, per valutare lo stato di affaticamento fisico cumulato, poiché rende più visibili i cambiamenti indotti nell’attività del sistema nervoso autonomo. Questi risultati possono essere rilevanti per ottimizzare i piani di allenamento individuali”.



HRV: cos’è
L’HRV misura le piccole, quasi impercettibili, differenze nel tempo che intercorre tra un battito e il seguente. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, maggiore è questa variabilità, maggiore è lo stato di salute del fisico e l’equilibrio fra sisema nervoso simpatico e parasimpatico. Normalmente, l’HRV è basata sulla misura protratta per due o tre minuti di queste piccole differenze, che vengono quantificate in un parametro numerico con un algoritmo di calcolo particolare (RMSSD = “root mean square of successive differences”), che è poi riportato su scala logaritmica, dando luogo ad un valore che va circa fino a 100. Ci sono due importanti valori di HRV da considerare: uno è quello giornaliero, l’altro quello di base, che si determina nel tempo e che deve essere il più alto possibile; non è un valore predefinito, lo si può migliorare gradualmente nel tempo, alternando adeguatamente allenamento e recupero, fino ad arrivare ad un massimo determinato dalla genetica. Di converso, può anche diminuire, se allenamento o recupero non sono sufficienti. Dall’altro lato, l’HRV giornaliero avrà variazioni molto maggiori a seconda dei cicli di preparazione atletica; la maggior parte degli applicativi utilizza un codice colore a semaforo e ci permette di decidere se è opportuno intraprendere sessioni di allenamento intense (luce verde), oppure se è meglio tenere un approccio più conservativo (luce gialla), o ancora se è necessario un giorno di riposo (luce rossa). C’è da dire che per un atleta non è necessariamente un bene avere sempre luce verde, perché potrebbe significare che gli stimoli allenanti non sono sufficienti a portare miglioramenti; è meglio avere una maggioranza di segni verdi, inframmezzati da un po’ di gialli, ad indicare che l’attività è stata sufficientemente intensa. Va anche considerato che il parametro di HRV è anche influenzato da altri elementi della vita quotidiana quali la nutrizione, l’idratazione, il sonno e lo stato emotivo.
Monitorando le fluttuazioni giornaliere e la tendenza della baseline, possiamo cercare di avere miglioramenti atletici graduali senza il rischio di sovra/sottoallenamento; se vedessimo un baseline stabile, o addirittura in calo, al contrario dovremmo allarmarci.
C’è da considerare anche che il valore di base varia in base allo schema delle pulsazioni di una persona e con l’età; mentre per una persona di 20-30 anni un range normale spazia fra 60 (fisico non molto allenato) e 90 (fisico ben allenato), per un uomo di circa 60 anni un valore di 55 sarebbe molto buono. In definitiva il valore del parametro restituito da un’applicazione software non è da considerare in assoluto oppure riferito al valore di altre persone, a causa di queste variabilità, tuttavia le variazioni nel tempo possono darci indicazioni di valore nel singolo atleta.
HRV: come si usa
Fra le numerose APP, ci sono quelle gratuite (Elite HRVbasic) e quelle a pagamento (Bioforce HRV, Elite HRV (team), Inner Balance, ithlete, Sweet Beat, HRV4Training); ognuna ha requisiti tecnologici diversi, può essere stata sviluppata per smartphone o tablet e richiedere o meno un sensore esterno come una fascia cardio bluetooth. Ultimamente, alcune app più nuove utilizzano la fotocamera del telefono come strumento di misura, anche alla luce di ricerche scientifiche in proposito (Extraction of Heart Rate Variability from Smartphone Photoplethysmograms, Rong-Chao Peng, Xiao-Lin Zhou, Wan-Hua Lin, Yuan-Ting Zhang. 2015); HRV4 Training è una di queste e il suo creatore, il Dott. Marco Altini, ha appena pubblicato un articoloscientifico al riguardo (Comparison of heart rate variability recording with smart phone photoplethysmographic, Polar H7 chest strap and electrocardiogram methods, D.J. Plews, B. Scott, M. Altini, M. Wood, A.E. Kilding and P.B. Laursen, International Journal of Sports Physiology and Performance, 2017)
Una volta che abbiamo definito uno strumento adatto o un’app, vediamo quando effettuare la misura. Pare che sia preferibile farlo al mattino presto, appena svegli; infatti, a causa del ritmo circadiano e delle fluttuazioni ormonali, una lettura effettuata durante la giornata potrebbe dare risultati diversi a seconda del momento. Si può anche discutere se sia meglio fare la misura da sdraiati, in piedi o seduti, con preferenza per l’ultima di queste; la posizione supina pare infatti favorire il sistema nervoso parasimpatico (e quindi rilassamento), mentre quella in piedi il sistema simpatico (e quindi attivazione), con il risultato di falsare potenzialmente la lettura della variabilità cardiaca. In ogni caso, è importante mantenere le stesse condizioni in tutte le misurazioni, le quali richiedono normalmente due o tre minuti, più il tempo necessario ad inserire alcuni dati, come la qualità e le ore di sonno e di allenamento del giorno precedente.


I grafici rappresentati dai vari sistemi o APP possono presentare i dati in forma diversa. A titolo di esempio, presentiamo degli screenshot effettuati con l’app Elite HRV. Il soggetto, in questione [l’autore – NdR] presenta un valore basale di HRV di 54, per cui una misura puntuale di 55 indica una momentanea prevalenza del sistema nervoso parasimpatico, ma sempre rimanendo in zona “verde”, quindi adatta ad allenarsi. Se la lettura fosse ad esempio 57, l’indicazione colore sarebbe stata “giallo”, associata probabilmente ad un momento di recupero e ricostruzione del fisico, con suggerimento di riposare o di effettuare esercizio solo a bassa intensità. Analogamente, un parametro di HRV giornaliero di 51, avrebbe portato ad un’indicazione di semaforo giallo, per eccessiva attivazione del sistema nervoso simpatico, sintomo di affaticamento, con indicazione di riposo.
Risulta intuitivo capire come una misurazione effettuata per alcune settimane può dare un’idea della tendenza dell’HRV e di come l’allenamento influenzi l’organismo. In figura si trova un esempio di grafico che mostra un orizzonte temporale di dieci giorni: la linea blu indica il parametro di HRV, mentre le barre sono un’indice di quanto il soggetto è pronto ad allenarsi quel giorno. Si osserva come nel secondo, terzo e quarto giorno l’indicazione sia sempre la stessa (colore giallo = riposare), tuttavia a fronte di letture diverse del parametro di HRV: alto nel secondo e nel quarto giorno, basso nel terzo. Molto probabilmente il soggetto nel secondo giorno, in cui partiva da un HRV alta, ha esagerato con l’attività aerobica, producendo un’attivazione eccessiva del SNS invece di riportare l’organismo all’equilibrio (omeostasi). Nei giorni successivi, le variazioni di HRV sono più contenute, indicando un bilanciamento più efficace fra SNS e SNP.


In conclusione, monitorare la variabilità della frequenza cardiaca (HRV) pare proprio un metodo efficace, semplice ed economico per ottenere il massimo dal proprio allenamento e, al contempo, salvaguardare la salute. Sicuramente questo è favorito dalla velocità della misura e dalle indicazioni biometriche immediate.



LA RIFINITURA PRE-GARA: PERCHÉ SERVE, COME FARLA


È oramai noto e riconosciuto che un atleta rende bene quando riesce a effettuare una preparazione con carichi di lavoro ottimali e al contempo si presenta alla gara in una condizione di basso affaticamento; questa condizione è da raggiungere attraverso un processo di “affinamento” e messa a punto, volta a ricercare il picco della prestazione. Questo processo, definito dagli anglosassoni tapering o peaking, in italiano è normalmente definito come fase di scarico o rifinitura: vediamo cos’è e come si può svolgere nel modo migliore.
Possiamo definire il tapering come un periodo di allenamento speciale che precede immediatamente la gara principale, durante il quale lo stimolo allenante è ridotto in modo sistematico per arrivare ad avere un picco di prestazioni. Uno dei ricercatori più ascoltati in materia ha fornito questa definizione ancora più precisa ed elaborata: “una riduzione del carico di lavoro progressiva, non lineare, durante un periodo di tempo variabile, eseguita con l’obiettivo di ridurre lo stress fisico e psicologico dell’allenamento quotidiano e ottimizzare la prestazione sportiva” (Inigo Mujika).
Il ruolo dell’allenamento è quello di creare affaticamento che, a seguito di un successivo periodo di riposo, porta ad un livello di funzionalità (muscolare, cardiovascolare, neurologica e anche psicologica) superiore a quello di partenza, tramite il fenomeno della supercompensazione (vedi la “legge della Supercompensazione” di Weigert o la “Sindrome da adattamento generale” di Hans Selye). Si tratta di un processo lento, perché gli adattamenti positivi si costruiscono nel tempo, come tutti sappiamo, ma tendiamo a dimenticare; al contrario, la fatica si accumula rapidamente. Giusto per fare un esempio, se ci alleniamo duramente per tre giorni di seguito, creiamo un grande affaticamento, ma costruiamo solo un piccolo adattamento positivo. Nel periodo pre-gara lo scopo è ridurre l’affaticamento, cercando al contempo di mantenere il livello prestativo raggiunto fino a quel momento.
Ridurre la fatica
Riducendo la sollecitazione dell’allenamento, l’organismo ha la possibilità di recuperare e lo fa con diversi sistemi fisiologici.
Ematologico
In un periodo di scarico ben condotto si può riscontrare un aumento nei livelli di parametri come l’emoglobina (capacità di trasportare ossigeno nel sangue) e l’ematocrito (percentuale di globuli rossi nel sangue), così come nel volume dei globuli rossi. Questo produce un significativo incremento nella capacità aerobica, particolarmente importante per gli atleti di resistenza, ma anche una migliore tolleranza all’acido lattico che si produce negli sforzi più intensi.
Ormonale
Uno studio di Aldcreutz (Effect of training on plasma anabolic and catabolic steroid hormones and their response during physical exercise.) ha investigato le variazioni degli ormoni anabolici e catabolici durante l’allenamento e la fase di scarico; in altre parole ha studiato quanto l‘organismo è incline a costruire e riparare i tessuti (anabolismo) piuttosto che a demolirli (catabolismo) nelle varie fasi. I risultati hanno mostrato una correlazione positiva fra l’aumento delle prestazioni e l’aumento del rapporto fra il testosterone (ormone anabolico) e il cortisolo (ormone catabolico), durante un periodo di tapering di quattro settimane. Ulteriori benefici a livello ormonale si possono ottenere durante questo periodo, usando tecniche di psicologia dello sport come la visualizzazione e il rilassamento progressivo.
Neuromuscolare
Il tapering ha effetti positivi sulle capacità contrattili dei muscoli, con benefici maggiori sulle fibre muscolari di tipo 2 (quelle “veloci” o “bianche”) che su quelle di tipo 1 (quelle “lente” o “rosse”). Questo potrebbe sembrare più che altro utile ad atleti esplosivi o di forza, tuttavia non bisogna dimenticare che occorre forza per muoversi sui dislivelli e che l’organismo può coinvolgere le fibre bianche anche per assistere delle fibre rosse affaticate. In ogni caso appare sensato il consiglio pratico di non svolgere allenamento di forza o con pesi nei 10-15 giorni precedenti una competizione.
Immunitario
Si riscontra un altro importante adattamento durante lo scarico, cioè l’aumento dei globuli bianchi nel sangue, specialmente gli eosinofili e i linfociti. Questo suggerisce un’aumentata capacità del corpo di resistere alle malattie.
Psicologia
Ci possono essere anche effetti psicologici come risultato di una fase di tapering. Uno studio del 1998 effettuato sui nuotatori da Hooper all’università del Queensland, in Australia, trovò significativi miglioramenti durante la fase di scarico; questi miglioramenti erano misurati tramite il cosiddetto POMS (Profile of Mood States, cioè “profilo degli stati dell’umore”), un test che rilevò, fra le altre cose, una riduzione della tensione, della depressione, della rabbia, degli sbalzi di umore e senso di stanchezza. Una ricerca più recente di Murach e Bangley all’Università di San Francisco conclude anch’essa che “…lo scarico migliora l’umore e le prestazioni atletiche, riducendo al contempo la percezione dello sforzo. Benché difficili da quantificare, i benefici di una riduzione del carico prima di una gara non devono essere sottovalutati”.
L’effetto dell’intensità
È quindi chiaro che, per ottenere nel giorno della gara i migliori benefici a livello fisico e psicologico, è necessario ridurre i livelli di affaticamento e il modo migliore per farlo è quello di diminuire il carico di allenamento. Si pone tuttavia il problema che riducendo l’allenamento si possa perdere il livello di adattamento faticosamente raggiunto; questa perdita è di fatto tanto maggiore quanto è più lungo il periodo di scarico. Delle possibili soluzioni a questo enigma furono ricercate per la prima volta nel 1992 all’università Mc Master dell’Ontario (Canada) in uno studio dedicato (“effects of tapering in highly trained athletes, 1992”), in cui suddivisero degli atleti in tre gruppi cui fu assegnato un protocollo di tapering diverso. C’era un protocollo cui corrispondeva solo riposo (“ROT: rest only taper”), uno con allenamento a bassa intensità e volume moderato (“LIT: low intensity taper”), infine uno con alte intensità e piccoli volumi (“HIT: high intensity tapering”). In modo sorprendente il gruppo HIT dimostrò un incremento del 22% nella resistenza, il gruppo LIT un miglioramento del 6%, mentre il gruppo ROT mantenne i livelli pre-tapering. Questi risultati notevoli degli atleti del gruppo HIT erano dovuti a quattro fattori principali: avevano più glicogeno nei muscoli, avevano più globuli rossi, avevano maggiore volume plasmatico (più sangue) e gli enzimi nei muscoli delle gambe erano più attivi. La conclusione e raccomandazione della ricerca era di “mantenere o anche incrementare l’intensità dell’allenamento durante la fase di scarico, perché questo probabilmente permette di mantenere gli adattamenti positivi costruiti nel tempo, che andrebbero altrimenti penalizzati dalla diminuzione del volume di allenamento”. L’importanza di questo approccio era stata evidenziata nel suo articolo del 2010 “Intense Training: the key to optimal performance before and during the taper” (Medicine and science in sports) anche da Mujika, di fatto uno dei ricercatori più all’avanguardia in questo campo.

Quanto ridurre e quando
Abbiamo appena visto che gli elementi chiave per un tapering efficace sono la riduzione del volume complessivo di allenamento, a fronte del mantenimento di intensità pari o anche superiori nel volume di esercizio rimanente. Ci sono dunque due modo di ridurre il volume: uno è quello di diminuire la frequenza delle sessioni di allenamento (es.: da sei a quattro sessioni settimanali); l’altro è quello di ridurre il tempo e la distanza di ogni singola sessione.
Frequenza
La frequenza degli allenamenti non andrebbe ridotta più del 50% e rimanendo prudenti potremmo consigliare di ridurla del 20%”. Così scrivono Houmard e Anderson-Johns in un articolo del 1994 sui nuotatori (Sports Medicine 1994, “Effects of Taper on Swim Performance”), dove una delle ragioni per consigliare una minore riduzione è la necessità dei nuotatori di bilanciare lo scarico con la necessità di esercitarsi con la tecnica e gli schemi motori propri di quello sport. Questo è probabilmente meno importante nel caso del running, dove la tecnica ha un peso minore, ma si può pensare di raccomandare una riduzione della frequenza degli allenamenti fra il 20% ed il 50%.
Volume
Una ricerca del 1993 di David Martin (D.M. et al, “The Effects of Interval Training and a taper on cycling performance”) mostrò come nei ciclisti si avevano adattamenti positivi indotti dall’allenamento quando, durante lo scarico, il volume veniva ridotto fra il 50% ed il 70%. Un altro studio di Mujika (“Physiological Responses to a 6-Day Taper in Middle-Distance Runners: Influence of Training Intensity and Volume”) riporta benefici per riduzioni fino al 75% del volume complessivo per dei mezzofondisti. In generale gli atleti di fondo, o resistenza, dovranno calare i volumi di lavoro meno degli sprinter o degli atleti di potenza. La raccomandazione potrebbe quindi essere di effettuare uno scarico riducendo il volume di esercizio del 50-75%.
In ogni caso, è stato dimostrato che la soluzione ottimale è la riduzione graduale; ad esempio, in un tapering di due settimane, nella prima settimana il volume [da misurare in chilometri e dislivello, nel caso del trail – NdR] sarà ridotto del 35-40% e un’analoga riduzione potrà essere implementata nella seconda settimana.
Durata
La durata del tapering è molto influenzata dal tipo di sport e dalla durata della prestazione che si prepara, nonché da fattori relativi all’atleta quali età, sesso (i maschi di solito richiedono periodi più lunghi di scarico, a causa della massa muscolare maggiore), nonché risposta fisiologica dell’individuo in questione. Un articolo del 2007 (Effects of Tapering on Performance: A Meta-Analysis”, Bosquet, Montpetit, Arvisais, Mujika) suggerisce che dei risultati ottimali di possono ottenere attraverso un periodo di scarico di due settimane, in cui il volume di allenamento è ridotto del 41-60%.
Mujika ha anche scritto che “i nostri studi indicano che un tapering efficace può durareda una a quattro settimane; la durata ottimale non dipende da età, esperienza o lunghezza della gara, ma dall’adattamento dell’atleta e dal suo profilo di recupero. Alcuni recuperano più rapidamente di altri, alcuni hanno adattamenti più duraturi, mentre altri perdono le prestazioni rapidamente.

Per riassumere, si può dire che si sono avuti risultati ottimali nella fase di scarico, o tapering, con riduzioni del 20-50% nella frequenza degli allenamenti, 50-75% nel volume del carico, mentre viene mantenuta o addirittura aumentata l’intensità. C’è una variabilità enorme, che mostra come la rifinitura del programma di allenamento sia un’arte più che una scienza. È compito dell’atleta, da solo o con l’allenatore, sperimentare e trovare la combinazione ideale per le proprie caratteristiche e per la gara in particolare da preparare.





VETRINA WINTER 2017/2018


Non c’è dubbio, ormai il winter running è un’attività sempre più diffusa, che comprende sì la corsa sulla neve, ma che più in generale abbraccia tutte quelle declinazioni della corsa invernale tanto cara a noi appassionati di montagna che proprio non vogliamo saperne di lasciare le scarpe da trail sullo scaffale fino a primavera.
Per alcuni di noi, l’off-season è il periodo ideale per prendersi una sacrosanta pausa dal trail running, dedicandosi allo scialpinismo, alle ciaspole o più semplicemente concentrandosi un po’ sulla corsa su strada. Se invece le montagne innevate vi chiamano e volete farvi trovare pronti, siete capitati nel posto giusto: di seguito troverete una selezione di alcuni dei materiali più interessanti di questa stagione autunno-inverno 2017, dall’abbigliamento, ormai sempre più specialistico, fino agli importantissimi accessori.

Apparel

Che si tratti di pantaloni lunghi caldi quanto basta, ma anche traspiranti e confortevoli, piuttosto che delle sottovalutate soft-shell, strumento utilissimo per correre in inverno, basta farsi un giro sui siti web delle principali aziende del mercato outdoor per rendersi conto che l’abbigliamento dedicato al trail running invernale è ormai una categoria a se stante, con le sue caratteristiche e le sue peculiarità. Pescando qualche idea dallo sci nordico e poggiando le proprie fondamenta sull’escursionismo e l’alpinismo, entrambe attività praticate da sempre anche nella stagione invernale, oggi è possibile trovare soluzioni confortevoli, ingegnose, talvolta addirittura sorprendenti per le nostre lunghe uscite sulla neve.
Ne sono un esempio i pantaloni e la giacca Wind Shield Hybrid di Patagonia, entrambi realizzati in tessuto soft-shell elasticizzato, che alternano aree realizzate in nylon ripstop con trattamento DWR a sezioni con pannelli in mesh traspirante, ad esempio sulla schiena e sotto le braccia nel caso della giacca, per aumentare notevolmente la traspirazione.





Quando il freddo aumenta, un’ottima soluzione è il Crosstrek Fleece Hybrid Hoody, un midlayer molto protettivo realizzato in Polartec Powerstretch con un interessante inserto imbottito frontale, a proteggere tutta l’area del busto dal gelo più intenso. Sulla pelle, un intimo Capilene è sempre un’ottima scelta per rimanere caldi e asciutti. Realizzato nei diversi pesi LightweightMidweightThermal, il baselayer per eccellenza di casa Patagonia si presta a qualunque attività sportiva, anche alla più intensa.



In casa La Sportiva, il baselayer Troposphere vi terrà caldi e avvolti, grazie alla sua elasticità, trasportando verso l’esterno l’umidità corporea generata dalla sudorazione e diminuendo quindi notevolmente la dispersione di calore. Ottimo in combinazione con il midlayer Vertex Long Sleeve, di cui vi abbiamo parlato sul numero di novembre nel nostro articolo “Fast & light”.


Altro modello interessante e particolarmente innovativo è il nuovo midlayer Evolutiv Trail di Kalenji: bavero con doppia zip, ripiegabile sul petto per aumentare la traspirabilità, imbottitura sintetica leggera e maniche ripiegabili con zip, il tutto unito a un bel set di tasche capienti posizionate sul retro. Struttura innovativa e ben congegnata, siamo curiosi di metterlo alla prova. Altro ottimo risultato di casa Kalenji sono i Collant Trail: quando l’anno scorso la linea da corsa distribuita da Decathlon introdusse il suo nuovo sistema di tasche in vita per il trasporto di soft-flask, smartphone e alimenti vari fu davvero una bella notizia per i runner, per due ragioni: innanzitutto perché il sistema funziona e anche alla grande (ed è presente su ogni tipo di pantalone, dallo short estivo al pantalone lungo invernale), e poi perché il rapporto qualità/prezzo è come sempre estremamente interessante rispetto a molti brand più blasonati. Anche in questo caso, prodotti di buona qualità e con una vestibilità particolarmente curata a prezzi veramente accessibili.


Se poi a voi il freddo piace proprio e vi va di alzare un po’ l’asticella con qualcosa di più di una semplice corsetta sulla collina dietro casa, eccovi una novità davvero interessante: la Patagonia Nano-Air® Light Hybrid Jacket, un concentrato d’innovazione e tecnologia. L’imbottitura sintetica, calda e leggera della linea Nano Air combinata con una serie di inserti traspiranti, per migliorare la gestione della temperatura durante le attività aerobiche più intense, vi stupirà per la sua efficacia. Perfetta per qualunque attività in montagna, patisce giusto un po’ gli sfregamenti contro le rocce appuntite.


Per le giornate più gelide, magari passate sulle ciaspole o sugli sci, la ED Protection Jacket di CAMP è un riferimento assoluto: leggero, comprimibile, caldo e con un taglio particolarmente sportivo, è un piumino ideale da mettere nello zaino per le nostre escursioni invernali. Nello stesso segmento, molto valida anche la Nivix Jacket 2.0, che può contare su un fill power ancora superiore e, soprattutto, sul tessuto Nivix Evo realizzato in nylon ripstop, semplicemente indistruttibile.


Accessori
Quando il freddo si fa intenso, accessori come guanti, berretti e fasce assumono un’importanza fondamentale. Come ogni anno, Buffci stupisce con effetti speciali sfoderando una collezione invernale realizzata in collaborazione con Primaloft, la linea Thermonet: un calore mai visto prima con uno spessore e un peso paragonabile alla microfibra estiva, ovviamente con una grande attenzione sia per la qualità dei materiali sia per il look dei prodotti, davvero accattivante.



Per quanto riguarda i guanti, invece, davvero superbi i La Sportiva Skimo Gloves, così come i CAMP Geko Hot e i G-Comp Warm: entrambi di derivazione scialpinistica e con pesi differenti, sufficientemente caldi da poter essere usati anche durante un’uscita in montagna con temperature ben al di sotto dello zero. Confortevoli e dotati di inserti per aumentare il grip sui bastoncini su dita e palmo, il G-Comp Warm di CAMP permette di utilizzare la copertura imbottita solo quando necessario, riponendola nell’apposito taschino quando non serve.



Uno sguardo anche sul fronte zaini e marsupi: molto interessanti la borraccia a mano di Nathan SpeedDraw Plus Insulated, isolata termicamente e dunque adatta per i lunghi allenamenti sulla neve, l’impugnatura è molto simile a quella della Speedmax Plus portata alla ribalta da Jim Walmsley e non c’è che dire, funziona bene! Sempre di casa Nathan, il VaporAir è uno zaino ideale per allenamenti lunghi e per gli ultra-trail estivi per chi ama utilizzare il camelbag (incluso, da 2 litri). La sua capienza si adatta molto bene alla corsa in inverno, quando le ore in giro per sentieri sono di meno, ma il materiale da trasportare è molto più voluminoso rispetto a quello estivo. Pratiche e facilmente accessibili, le tasche frontali e laterali si prestano meglio al trasporto di materiale vario piuttosto che all’utilizzo di borracce frontali. Estremamente capienti i due vani posteriori, con l’aggiunta di un cordino elasticizzato per il trasporto di ulteriore materiale fissato direttamente fuori dallo zaino.


Per le uscite più brevi, invece, davvero molto interessante il marsupio dedicato allo sci nordico S/Race Insulated Belt: direttamente dalla linea racing di Salomon per lo sci di fondo, questo marsupio offre una stabilità eccellente e ben tre litri di capienza, il tutto con la possibilità di utilizzare direttamente un camelbag con tubo ricoperto in materiale isolante che impedisce all’acqua di congelarsi fino a -20°. Molto pratico anche se utilizzato con una semplice softflask da 500 ml in una delle due tasche interne, permette di trasportare cibo e guscio, il tutto rimanendo perfettamente stabile anche durante la corsa in piano grazie a un fit impeccabile e a una fascia ventrale molto confortevole. Da provare!



In fine, un’idea per un regalo diverso dal solito che, credetemi, farà felice il fortunato destinatario della vostra generosità: Patagonia Black Hole Mini Messenger, una borsa tuttofare adatta alla vita di tutti i giorni così come ai vostri viaggi in giro per il mondo, indistruttibile e semplicemente bellissima. In grado di trasportare un laptop di 15 pollici e un iPad nelle tasche dedicate, grazie alla sua tracolla larga e morbida è confortevole anche a pieno carico e può essere utilizzata anche in bicicletta in tutta comodità. Derivata dalla collezione di borsoni da viaggio Black Hole, ne ricalca in tutto e per tutto le caratteristiche fondamentali: solidità, sostenibilità e praticità d’uso. Ormai è diventata la mia fidata compagna di viaggio quotidiana.